AGramsciJr

incontro con

Antonio Gramsci jr

scrittore e musicista

L’autore racconta il suo libro “La storia di una famiglia rivoluzionaria”

con la partecipazione di Raul Mordenti
presentazione dell’ Università Popolare Antonio Gramsci.

PERCHE’ UNA “UNIVERSITA’ POPOLARE ANTONIO GRAMSCI”

 Per molti il crollo dei regimi comunisti europei nell’ultimo decennio del secolo passato ha significato, oltre che il fallimento di una esperienza storica, anche il tramonto della possibilità stessa di promuovere un progetto di trasformazione radicale degli assetti sociali.

         In quegli anni, il monito di quanti avvertivano che la vittoria dell’Occidente non aveva rimosso – e anzi avrebbe aggravato – gli squilibri e le disparità che si dipanano dalla natura intrinsecamente contraddittoria del capitalismo globale è rimasto sostanzialmente inascoltato, sopraffattodall’egemonia acquisita dalla narrazione storica della destra neoliberista, che, nell’analizzare il “secolo breve” ha accentuato unilateralmente il nesso tra economia di mercato e libertà politica (in Italia, tra l’altro, indicando nella impostazione “anticapitalista” il punto critico della Costituzione repubblicana), ignorando il corto circuito verificatosi tra classi dirigenti e istituzioni democratiche a partire dalle radici stesse dello Stato unitario 

         D’altra parte, l’esito devastante della crisi  esplosa nel 2008  non ha avuto l’effetto di fare emergere una linea alternativa di direzione dell’economia e delle istituzioni, né di avviare una riflessione organica sulle conseguenza di una liberalizzazione che ha considerato come eresia qualsiasi riflessione sul controllo democratico del ciclo economico e su forme di intervento pubblico sull’economia. In altri termini, la “lunga durata” ideale del successo neoliberista ha messo in ombra il declino economico reale.

 La dimensione della sconfitta subìta è epocale e non riguarda non solo le forze politiche ma il senso comune, la mentalità, il sentire di sinistra. Per l’Italia c’è una data che può essere presa a simbolo dopo il decennio rosso e un ventennio di avanzata delle forze popolari e precede ampiamente l’implosione del socialismo reale e la collegata fine di un Pci, già in crisi di consensi: il 14 ottobre 1980 con la cosiddetta “marcia dei quarantamila” contro gli operai della Fiat e la sua gestione in chiave di piena ripresa dell’egemonia padronale. Ad aggravare la situazione in maniera decisiva ha poi contribuito il modo in cui il Pci ha scelto di chiudere la sua storia: con la maggioranza dei suoi dirigenti decisi a non fare i conti con il passato, pronti a cambiare rapidamente giacca, per ritrovarsi poi tutti liberali e magari disposti a giurare di non essere mai stati comunisti, rinunciando insieme sia ad una assunzione di responsabilità che a rivendicare una propria storia su cui riflettere, per elaborare un’interpretazione critica del passato.

         Ormai la destra risulta vincente anche sul terreno della “narrazione” riscrivendo nel senso comune delle masse, cioè nel loro cervello, la storia nazionale e mondiale.

 Ma non c’è un bel tempo andato da ritrovare. Se si  vuole ridare respiro a un pensiero e a una prassi di sinistra non ci si può limitare a una trasmissione della memoria, perché la storia, le nostre storie, sono tutte da capire. A partire dalle domande di oggi. A partire da come è andata a finire. A partire dalla presa d’atto radicale della sconfitta, ma della possibilità di riprendere un cammino (come ha scritto Pintor nel suo ultimo articolo).

         Anche il lavoro sulla memoria può assumere punti di partenza, che guardino non solo alla valorizzazione di un patrimonio senz’altro importante (per la cui conservazione si è rivelata essenziale la storia orale, che ha tutta la forza di una trasmissione diretta, e anche tutta la debolezza degli scherzi della memoria) ma anche i modi attraverso i quali si forma, oggi, la percezione di ciò che è stato e come esso rivive, anche a livello individuale, nell’esperienza del presente.

 La nostra passione è politica, ma in un senso preciso. Abbiamo l’ambizione di contribuire anche noi a “fare società”, così come un orto sociale o una società di mutuo soccorso, abbiamo la speranza di dare una mano a ricucire o creare un tessuto umano e sociale dentro e contro la crisi. Rivendichiamo il valore di un percorso di ricerca critica anche per il “qui e ora” proprio perché non abbiamo nessuna intenzione di “inseguire le scadenze”, tantomeno  elettorali, ma vogliamo tentare di costruire percorsi di ricerca senza farci prendere dall’ansia dell’attualizzazione o della riduzione di temi complessi a formule facilmente assimilabili ma, alla fine, poco nutrienti.

         Può essere un altro modo di togliere dall’angolo la politica che, come ha scritto efficacemente Stefano Rodotà, “oggi appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica”. Ma la liberazione della politica di sinistra dalla subalternità passa per la ricostruzione di una prospettiva e questa si  nutre di analisi del passato e sguardo sul futuro.

 Della nostra proposta  fa parte integrante la critica (anche con un impegno in rete a partire da Wikipedia) del “pensiero unico” dominante e dei luoghi comuni anche di sinistra: come la riduzione delle forze di cambiamento che hanno agito in Italia al Pci o la mitizzazione eroica di Br e affini che hanno invece contribuito ampiamente a rafforzare lo Stato e a distruggere quell’egemonia che il lungo ’68 aveva creato.

 L’ambizione è di attivare percorsi di ricerca orientati secondo diversi ambiti disciplinari e interdisciplinari, con una forte apertura verso le esperienze europee ed internazionali.

         Si parte dal presupposto di un pluralismo che vorremmo fosse la cifra di questo progetto: pluralismo di pensiero, di sensibilità, di proposte: nessuno ha la linea in tasca per  ricreare le condizioni di una larga opposizione di sinistra allo stato di cose esistenti. Del resto addirittura il Papa dichiara che non è più tempo di proselitismo, ma di ascolto. Una citazione che è un invito: ad avere occhi attenti a quello che accade nella Chiesa, perché può segnalare l’avvio di processi che vanno ben oltre il mondo dei credenti. Del resto il Concilio si è svolto prima e non dopo il ’68 e ha contribuito a farlo essere quello che è stato.

 Questo spazio pubblico intende assumere una forma e una connotazione specifica: quella dell’Università Popolare. A favore di questa denominazione  militano varie considerazioni. Ci limitiamo a proporre quelle che ci sembrano più significative:

 1) il nome “Università popolare” si ricollega a una bella tradizione del movimento operaio e popolare delle origini, a cui (come ci insegnava Pino Ferraris) la nostra fase storica, ahimé, somiglia;

2) noi (ri-)fonderemmo – quasi simbolicamente – una Università del popolo come luogo di ricerca e formazione  nel momento stesso in cui la borghesia distrugge la sua Università, quella che avevamo cercato di democratizzare nel dopoguerra e tanto più a cominciare dal ’68, e nel momento in cui la tutela del patrimonio culturale materiale ed immateriale si limita a riproporre la stucchevole retorica del “petrolio nazionale” mentre le già scarse risorse vengono ulteriormente ridotte e il lavoro intellettuale è condannato a una crescente emarginazione sociale;

3) “Universitas” implica alcuni significati che rispecchiano i nostri intenti: a) occuparsi praticamente di tutto (tutto ciò che ci interesserà), e in questo senso le forti differenze delle competenze e degli interessi disciplinari già presenti sono di buon auspicio; b) legare didattica a ricerca, dando vita ai primi nuclei di lavoro costituiti in seminari a carattere permanente, nel senso che da essi dovrebbero svilupparsi strutture più stabili e meglio definite dal punto di vista disciplinare.

4) per ultimo, ma non meno importante: questo stesso nome di UP potrebbe favorire i raccordi di una iniziativa che non si propone di cercare o rivendicare finanziamenti pubblici, ma intende mantenere sempre aperto il dialogo con il comparto pubblico, sia con le istituzioni rappresentative, sia con gli enti e gli istituti di ricerca.

Intitolare poi al nome di Antonio Gramsci la nostra UP vorrebbe dire molte altre cose:

1) il richiamo ad un atteggiamento di ricerca caratterizzato da un chiaro e solido ancoraggio politico ed etico, ma aperto e inclusivo ( anche di chi tra noi non si considera comunista);

2) il richiamo a un pensatore studiato e usato in tutto il mondo, a cominciare dagli USA  e dall’America Latina che ci sta particolarmente a cuore: insomma un segnale forte di internazionalità;

3) infine si vuole scegliere non solo il nome di Gramsci, ma anche cercare di cogliere il senso più sostanziale della sua lezione: tenere duro nella sconfitta e, al tempo stesso, interrogarsi senza remore sulle ragioni vere e profonde del fallimento.

         Insomma: intitolare ad Antonio Gramsci il nostro progetto non vuole dunque essere né una scelta identitario-minoritaria, né un omaggio a un presunto paradiso perduto. Ripartiamo da Gramsci, con umiltà e con una gran voglia di ragionare insieme tra generazioni, perché Gramsci si interrogava su una sconfitta. E proprio questo noi dobbiamo fare. Lo storico Guido Crainz si è chiesto: da dove sono usciti fuori gli anni Ottanta? E si è risposto: “Già c’erano, ma vi erano degli anticorpi che li contrastavano”. Vero, ma aggiungiamo noi: anche gli anticorpi non erano poi così sani.

Insomma, nessun rimpianto, ma l’atto umile di rimboccarsi le maniche e cominciare a lavorare al futuro.

Roma, marzo 2014                                                              Il Comitato Promotore

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