Si sostiene che questa quarantena ci stia rendendo tutti uguali. Lasciamo volentieri questa considerazione agli ignavi storditi o alle anime belle d’ogni colore. Non c’è niente di più sfacciatamente falso. Le stesse ingiustizie di quella scala sociale che ha reso il nostro paese tra i più diseguali al mondo si ripropongono amare e dolenti sugli effetti che l’emergenza sanitaria in corso scarica sulla popolazione. Il “restiamo a casa” che riecheggia in ogni dove, tanto necessario clinicamente quanto stucchevole nel suo frusto candore, impatta su condizioni materiali diversificate e a volte scandite da distanze abissali.
Chi una casa proprio non ce l’ha, chi a malapena può contare su una stanzetta in un palazzo occupato, chi s’è accatastato una baracca o ha trovato un rifugio di fortuna, un angolo abbandonato, un giaciglio nascosto da arbusti e cespugli, un fagotto di stracci tra le macerie, chi vive nei campi Rom, ebbene, per tutti costoro – e sono migliaia e migliaia – la quarantena è una disgrazia che si abbatte su una vita già di suo ampiamente disgraziata. Una vita precaria e disperata, che li rende ancor più vulnerabili e indifesi.
Lavarsi spesso le mani per stare attenti a possibili infezioni. E’ questa la prima raccomandazione del decalogo anti Coronavirus. Nel 2014, il Parlamento approvò –era presidente del consiglio Matteo Renzi, segretario PD- una legge apparsa subito odiosa, che letta oggi in tempi di pandemia, dimostra l’insensatezza del pensiero unico che ci ha portato in questo disastro. All’interno del provvedimento “Misure urgenti per l’emergenza abitativa“, l’articolo 5 dichiarava inammissibili gli allacci degli edifici occupati da senza tetto. Compresa l’acqua potabile. Altro che mani pulite. Le famiglie senza casa non hanno neppure il diritto di bere, bambini compresi. Non siamo tutti uguali nella quarantena.
Ed è straziante assistere a tanta desolante ingiustizia, se solo si pensa a quanta volumetria inutilizzata giaccia in questa città, inerte e abbandonata, sebbene facilmente convertibile in spazi d’accoglienza. Caserme, depositi, magazzini, stabilimenti, ex ospedali, ex rimesse. Uno sterminato patrimonio immobiliare vuoto e disadorno, che potrebbe ospitare, anche solo per questo fosco periodo, chi ha bisogno di un tetto, di un letto, di un pasto, di quelle piccole grandi cose che per molti sarebbero un ritorno alla vita.
Di tutto ciò non c’è traccia tra le misure di contrasto all’emergenza virale che i governi centrali e locali stanno predisponendo. Eppure sarebbe facile e immediato, se solo avessimo amministratori sensibili e intelligenti, oltreché minimamente capaci. E non è neanche necessario ricorrere a strumenti (per così dire) estremi, tipo espropri o requisizioni. Per destinare all’accoglienza edifici pubblici basterebbe un’ordinanza da attuare con semplici procedure dirigenziali, seguita da modesti stanziamenti per il ripristino edilizio e i necessari arredi. Una roba che, se si vuole, in meno di una settimana verrebbe realizzata.
Ma voi ve l’immaginate la sindaca Raggi che in un impeto di resipiscenza, con uno scatto d’orgoglio, firma ordinanze, mobilita gli uffici e dispone le cose da fare e decide chi deve farle? Ma per favore, stiamo chiedendo l’impossibile a una donna che ancor oggi, dopo quattro anni, è lì a chiedersi come quando e perché si trovi sulla sommità di quel Colle. E purtroppo continuerà a chiederselo fino alla fine del suo mandato, mentre la città diventerà sempre più misera e sgraziata.
Paolo Berdini Sandro Medici
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